Regola#209nonaspettaredomaniperfaredellatuavitaundono

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Ed ecco che dopo qualche settimana, don Giovanni si trova la scrivania invasa da segnalibri semplicissimi, con l’elenco delle parrocchie dove ha vissuto da un lato, e l’immagine del Mausoleo al Genocidio in Armenia dall’altra parte…

NON ASPETTARE DOMANI PER FARE DELLA TUA VITA UN DONO

Non c’è stato un giorno, in quegli otto mesi, in cui non abbia pensato alla promessa che avevo fatto.
E non ci sarà un giorno, in tutti i mesi che verranno, in cui non penserò a quella promessa. Mai mantenuta.

Don Giovanni è il parroco del mio paesetto di campagna in una fase in cui ho bisogno di credere in qualcosa, e in Qualcuno.
E’ un prete buono, di una bontà da nonno che non ricordavo di avere avuto..
E’ un prete paziente, di una pazienza che a volte ho messo a dura prova con la mia voglia di rinnovare, con le canzoni moderne in chiesa a tutto volume e la croce di fiori in quaresima e il mio modo originale di fare catechismo ai bimbi piccoli.
E’ un prete vero, di quelli che fanno della loro vocazione un dono per gli altri, e non per se stessi.
E’ un prete che sa capirmi.
Nel 2005 lascia la mia parrocchia dopo quasi dieci anni, e  soltanto qualche settimana dopo la morte di Papa Wojtyla; per la mia fede è un colpo durissimo, una frattura che forse non si è ancora risanata.

Lo mandano in un paesino di montagna.
“Guardi che la vengo a trovare, don Giò; lei intanto mi trovi un fidanzato montanaro”.
Rido. Ride anche lui. E si capisce che ride di gusto perché si vede il dente otturato sul lato sinistro della bocca. Una piccola scintilla di luce, questo è sempre stato il sorriso di Don Giovanni.
“Ti aspetto allora. E anche il fidanzato montanaro”.
Ma a trovarlo nel paesino non ci sono mai andata. Eppure lo penso, lo penso continuamente, perché pensarlo mi fa sentire più serena.

Passa il tempo.
Passano gli anni, e ogni anno arriva e passa anche il 21 gennaio, giorno del suo compleanno.
E ogni anno, il 21 gennaio, mi sveglio pensando di chiamarlo entro sera.
E ogni anno, il 21 gennaio, arriva sera e non lo faccio. Eppure lo penso, lo penso ogni anno il 21 gennaio.

Passa il tempo.
Don Giovanni invecchia, si ammala. Non sta bene.
Ha un cugino che vive nel mio paesello, che gli sistema una parte della casa; don Giò torna a stare a due chilometri da casa mia.
“Che bello, penso. Finalmente posso andare a trovarlo più spesso”.
Ma non ci vado. Non ci vado mai.
Lo incrocio qualche volta, lo faccio conoscere ai miei nuovi allievi di catechismo.

“Don Giò, prometto che appena mi sistemo con il lavoro passerò a trovarla più spesso, e le leggerò In Nome della Madre di Erri De Luca; le piacerà, don Giò, glielo prometto”.
Passa il tempo, io mi sistemo con il lavoro, e mi incasino di nuovo. Mi sistemo con la vita, giusto il tempo per iniziare ad incasinarmela di nuovo. Penso a don Giò, penso che avrei bisogno di parlare con lui, penso che devo andarlo a trovare per leggergli il libro, ma non lo faccio.
Mi illudo nella scusa di non avere tempo; fingo che sia una questione di priorità.

Passa il tempo, don Giovanni festeggia i 50 anni di sacerdozio, e mi chiede una mano per realizzare il santino.
Non ha per niente paura del mio modo strambo di vedere le cose; anzi, forse è proprio quello che cerca.
“Don Giò, lasciamo stare i santini tradizionali, che le persone prendono e poi li buttano in un cassetto assieme a quelli dei morti! Facciamo qualcosa di originale: lei ha sempre amato i libri e viaggi. Il suo santino sarà un segnalibro con la foto del viaggio che ha amato di più. Un segnalibro lo usano tutti, sarà sempre nei pensieri di tutti così!”
Ed ecco che dopo qualche settimana, don Giovanni si trova la scrivania invasa da segnalibri semplicissimi, con l’elenco delle parrocchie dove ha vissuto da un lato, e l’immagine del Mausoleo al Genocidio in Armenia dall’altra parte.
Un successone. Don Giovanni ride di gusto, ride che gli si vede il dente anche se è acciaccato e malato e stanco.

“Settimana prossima vengo e le leggo quel libro, don Giò. Prometto”.
Ma settimana prossima diventa l’altra, e l’altra ancora.

E tutte le sere tornando dall’ufficio penso che potrei andare da lui, ma stasera no, meglio domani.
E tutti i sabato penso che potrei andare da lui, ma questo fine no, meglio il prossimo.

E poi arriva una domenica mattina di inizio marzo, e don Giovanni – che ha compiuto 86 anni da poco – recitando un’Ave Maria – la sua preghiera preferita, circondato dall’affetto della sua famiglia, si spegne.
In silenzio, in punta di piedi.
Anche se secondo me la sua anima stava sorridendo, ed è salito su proprio con quel sorriso che si vede il dente.

E io resto piccola e incompleta, racchiusa nella promessa che non ho mantenuto, e non potrò mantenere più.
Ma la lezione è servita, don Giò.
Ora non aspetto più. Non mi accontento di pensare a qualcuno: lo chiamo, lo vivo, ne condivido il mondo.

Perché è questo che dobbiamo fare tutti.
Non limitarti a pensare che vuoi bene a quella persona; diglielo!
Non limitarti a pensare che vuoi passare del tempo con quella persona; fallo!

Vuoi sapere come sta una tua amica? Prendi il mano il telefono e chiediglielo! Bastano un messaggio, una telefonata, un gesto.
Esattamente quello che cerchi e vuoi e pretendi tu dagli altri.

Non aspettare che venga il momento giusto; dipende solo da te fare che il tuo tempo sia prezioso sempre, e non vissuto nei dettagli, nei ritagli o – peggio ancora – nei rimpianti.

Ecco la lezione tua più bella, don Giò.
Mica l’ho trovato ancora, il fidanzato. Ma non aspetto più che sia domani per fare della mia vita un dono.
Proprio come mi hai insegnato tu.

Che il cielo ti sia lieve, don Giovanni.
E che la terra lo sia quaggiù per tutti noi.

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