Regola#277piangi,piccolina,piangi

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Preziose come l’oro siano le lacrime che piangi da sola, e non quelle che ti infergono gli altri.
PIANGI, PICCOLINA, PIANGI

L’esame è finito.
Il temporale pure.
E anche la tempesta dentro di me.
Tre momenti che mai avrei pensato di vivere tutti assieme nell’arco di una giornata, in piena sessione, oltretutto.
Eppure…

E’ un caldo mercoledì di luglio; devo sostenere uno dei miei esami più importanti ed impegnativi, Storia Moderna.
Sono preparata, amo la materia, ho studiato tanto nonostante il poco tempo e non vedo l’ora di ritrovarmi davanti al prof.

Ore 9.00, parte l’appello. Muraro? Presente.
Assieme ad una trentina di altri studenti; sarà una giornata di quelle lunghe.
Un’altra, infinita giornata.
E penso che di giornate infinite non ne posso proprio più, perché è da troppo tempo che sto tirando la corda della mia vita.
Io, che da piccolina la corda ero abituata a saltarla, inciampando giusto dopo il secondo giro.

Mi abbasso sulla sedia, appoggio la testa allo schienale e chiudo gli occhi.
Grande sbaglio.
La testa mi si stacca dall’esame, ed inizio a pensare.
E l’unico pensiero, è che non ce la faccio più.

Questo è il quarto esame in due settimane, passo le mattine a fare la babysitter, i pomeriggi a dare ripetizioni e le sere a spinare birra in un pub, ritagliandomi qualche ora per studiare di notte.
Non ce la faccio più a far finta che vada tutto bene, non ce la faccio più a fare tutto da sola.
Non ce la faccio più a tenere la soglia alta per non deludere nessuno – me per prima.
Non ce la faccio più a fingere di non avere bisogno di appoggiarmi a qualcuno.
Non ce la faccio più a contare solo su di me.
Non ce la faccio più a far finta di essere diventata grande.

9.45. La luce nella stanza cala all’improvviso.
Cerco di guardare l’unico pezzetto di cielo che si vede dalla finestra dietro alla cattedra del prof: si sta riempiendo di nuvole.
Tra poco piove, penso.
E penso anche che non ce la faccio più a sopportare tutto quello che ho dentro.
Non riesco neanche più a sopportare quella che sono diventata.
Non riesco più a capire quello che voglio davvero.
Devo uscire da questa stanza.

10.30. Ho bisogno di stare da sola, ho bisogno di gridare, ho bisogno di sentirmi capita, ho bisogno che qualcuno porti questo peso con me.
Anzi no, ho bisogno che qualcuno questo peso lo porti al posto mio.

Sono le 11.00 quando realizzo che ho bisogno di piangere.
Devo piangere per togliermi il macigno che mi spinge come un pugno sulla bocca dello stomaco.
Devo piangere perché è da mesi che mi sono giurata che di piangere non avrei avuto bisogno più.
Ed invece…

Prendo le mie cose, esco di corsa dall’aula studio, e mi metto a cercare una chiesa, perché qualcosa dentro di me mi spinge a cercare un posto dove forse potrei ritrovare un po’ di serenità.
Evidentemente però anche la serenità, come le cose più belle della vita, bisogna guadagnarsela, perché per trovare una chiesa aperta in quella mattinata di luglio ho camminato per 45 minuti, percorso quasi 2 chilometri e tentato di entrare nelle tre chiese che avevo trovato nel frattempo.
Tutte chiuse.
Quando finalmente riesco ad aprire il portone di una piccola chiesa del centro, è quasi l’una, il cielo sta per esplodere ed io con lui.
Sudata, sfinita, mi siedo in uno degli ultimi banchi.

E comincio a piangere tutta la stanchezza che ho dentro, tutto il bisogno d’amore, tutto il bisogno di sentirmi dire che va tutto bene, piccolina, va tutto bene.
Piccolina.
Cerco di piangere in silenzio e senza singhiozzare per non attirare l’attenzione delle 5/6 persone sedute davanti di me.
Piango senza pensare a nulla, piango perché ho umanamente bisogno di riconoscermi debole e ricominciare proprio da lì a scoprirmi ancora più forte.

Resto così, seduta con la testa bassa per quasi un’ora, fino a quando mi rendo conto non tanto che ho un esame da fare, ma che mi sono praticamente liofilizzata, e ho pure il naso che cola in maniera molto poco spirituale.
Cerco un fazzoletto nello zaino.
E ovviamente, non ne ho.

Provo a tamponare la situazione molto poco elegantemente usando l’orlo della t-shirt, esattamente come facevo da piccolina quando piangevo per un ginocchio sbucciato e mi asciugavo il naso sul braccio della felpa.
Ed è proprio così che mi sento: piccolina.
Ma al contempo, leggera.

Esco dalla chiesa che il cielo sta rovesciando talmente tanta acqua da sembrare un’onda capovolta.
Forse qualcuno è stanco anche lassù, penso.

Quando rientro in aula, sono quasi le tre.
Sono fradicia.
Ma al contempo, leggera.
Perché ho buttato fuori tutto: pensieri, paure, tristezza.
Tutto fuori, finalmente.

Prima che tocchi a me mi rifugio in bagno; sembro un panda cerca-famiglia: occhi cerchiati di nero, mascara e moccio sul collo della t-shirt.
Capelli inzuppati.
Spero che il professore apprezzi lo stile bohemien.
Ma sto sorridendo, perché non mi sono mai sentita più piccolina, e più leggera.

17.15, tocca a me. Storia della Venezia Repubblicana.
Pronti, via.
Non mi ferma più nessuno.
L’esame è finito, il professore si china a scrivere il voto sul libretto mentre guardo quel pezzetto di cielo dalla finestra dietro di lui.
30 e lode. Come in tutti i miei esami di storia.
Sta tornando limpido.
Sta tornando il sereno.
Perché a volte il segreto è tutto lì: se senti il bisogno di piangere, fallo.
Preziose come l’oro siano le lacrime che piangi da sola, e non quelle che ti infergono gli altri.
Piangi.
Perché chiunque tu sia, per quanto tu sia forte, per quanto tu possa passare il giorno a fare la dura, ad un certo punto devi cedere.
Scegli un angolino, un momento, un riparo solo tuo.
E sfogati.
Piangi.
Più che puoi, sentendoti la piccolina che eri e amandoti come l’adulta che sei diventata.

Lasciati salire le lacrime agli occhi, lascia che la palpebra ti si riempia d’acqua che vedi tutto offuscato.
Lascia che ti manchi il respiro e ti si blocchi il fiato.
Lascia che tutto quello che hai dentro ti straripi dagli occhi, lascia che tutto quello che ti tormenta inizi il suo percorso lento e caldo sulle guance, e quasi come un pellegrinaggio inizi a rigarti il viso, il collo.
Lascia che sia un cammino lento e sommesso, perché solo così ti si depureranno gli occhi da tutte le cose brutte.

Perché quando un’emozione è fuori dal tuo corpo, non può più nuocerti.
L’hai vista, la possiedi, la puoi controllare.
Asciugare.
E cancellare.

Non è detto che non possa più farti male, ma ora sei tu a decidere quando permetterle di riafferrare nei tuoi pensieri.

Piangi, piccolina, piangi.
Perché piangendo, ti stai guarendo da sola.

E per di più, fa pure gli occhi più belli.
Più brillanti.
E il segreto lo saprai solo tu.

 

10 thoughts on “Regola#277piangi,piccolina,piangi

  1. é proprio quello che mi è successo qualche giorno fa,
    grazie mille, le tue parole fanno bene al cuore mi fanno sentire di non essere l’unica

  2. Fatto ieri! E fa piacere sapere che non sono la sola. A me non fanno paura le lacrime. Ci convivo da sempre. E ho un bel rapporto con loro al contrario della gente che mi circonda. Sono emozioni espresse come hai descritto tu. E fanno sentire più leggeri.

  3. Fatto per tutto il pomeriggio/sera…da sola in ufficio quando tutti se n’erano andati e poi in auto lungo il tragitto per tornare a casa. Poi ho parcheggiato fuori dal supermercato ma nn sono entrata. Sono andata a trovare papà che nn sta bene. Poi ancora lacrime. Poi niente cena perché avevo quasi la nausea e infine lacrime a letto fino ad ora che è l’1 e 30. Ma ora sto meglio …perché quell’emozione negativa è fuori di me ed è scivolata via o essicata. E io sono più forte. E lunedì dirò quello che penso e mi farò valere!

    1. Ricordati sempre che nessuno sarà mai più grande di te, se tu non glielo permetterai.
      Di’ quello che pensi, con calma e con la consapevolezza che le tue emozioni sono legittime, e fatti valere.
      Sono con te!
      EBT

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